Ritratti – Alberico Evani

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One night in Tokio – Per centodiciannove minuti la palla si è rifiutata di entrare in porta. Nonostante il Milan di Sacchi fosse la squadra più forte d’Europa. Nonostante il suo gioco spettacolare. Nonostante la sua tendenza a tritare gli avversari. Centodiciannove minuti nei quali una sconosciuta squadra di colombiani resiste al prodigioso Milan che ha dominato la coppa dei Campioni conclusasi a maggio con il trionfo sulla Steaua Bucarest. Sono, in gran parte, nazionali colombiani guidati da un portiere fortissimo ed un po’ matto che risponde al nome di René Higuita (uno che gioca il suo ruolo con una trentina d’anni d’anticipo) ma quella resistenza non ha nessuna spiegazione. Per soprammercato sono centodiciannove minuti vissuti nella notte italiana (la partita si gioca in Giappone) afflitti, e non ci viene in mente altra parola, dall’ascolto delle trombette con cui i giapponesi pensano di allietare gli spettatori di tutto il mondo.

Piccola nota a margine – Per i più giovani: la Coppa Intercontinentale negli anni ‘80 subisce una trasformazione. La classica formula “andata in casa di una e ritorno a casa dell’altra” costringeva le squadre europee a trasferte “selvagge” dove, se andava bene, ti rompevano tibia e perone e, se andava male, ti facevi un paio di notti di galera come era accaduto al nostro Nestor Combin nel 1969. Soprattutto a causa di queste “battaglie” le squadre europee iniziano a snobbare la competizione che perde progressivamente fascino fino a quando la Toyota, con notevole fiuto degli affari, rileva i diritti commerciali della competizione e la trasferisce a Tokio in partita secca. I trofei sono due: la Coppa Intercontinentale e la Toyota Cup.
Ok, torniamo a quella notte a Tokio. Immaginate i giapponesi ad inizio del decennio; da bravi “soldatini” eseguono l’ordine e riempiono lo stadio per l’evento ma è come andare all’opera: tutti zitti a vedere cosa accade. È abbastanza evidente che come spettacolo non sia molto “commerciale” e quindi i furbi del marketing fanno uscire dagli altoparlanti dello stadio un fastidiosissimo, ed ininterrotto, suono di trombette. Un supplizio. Fate così, Google, Youtube, Milan Medellin; scegliete una sintesi, possibilmente corta, e fate attenzione al suono delle trombette. Le “vuvuzelas” a confronto sono musica degli angeli. Al quindicesimo la metà degli spettatori ha tolto il volume, qualcuno ha mostrato segni di epilessia altri hanno provato a sbranare il cuscino per fare dei tappi per le orecchie con l’imbottitura.

Bubu… settete! – Dopo centodiciassette minuti di trombette, lotta con il sonno e resistenza in attesa dei calci di rigore, dove i colombiani vogliono palesemente mandarci contando sulle capacità del loro portiere-capitano-stella-mattatore, Marco Van Basten inventa uno stop a seguire ed un difensore colombiano lo stende appena prima dell’area di rigore. Punizione, botta di adrenalina e tutti seduti sulla punta del divano. In campo ci sono Donadoni, Van Basten e Simone quindi ti aspetti che la punizione la batta uno di questi ma sulla palla, insieme a Donadoni, ci va Alberigo Evani per tutti “Bubu”, come l’orsetto amico di Yoghi. Chicco, altro soprannome di Alberigo, non è nuovo a punizioni vincenti. Con il suo sinistro ha messo il sigillo nella gara di ritorno della Supercoppa Europea di pochi mesi prima contro il Barcellona. All’andata, in Catalogna, era finita 1 – 1 e quindi sarebbe bastato il pareggio ma Evani chiude i conti con una sassata dal limite dell’area. Nonostante il precedente importante quella notte non mi sarei mai aspettato che calciasse lui. Passano due minuti tra liti sulla distanza, piazzamento della barriera, pagliacciate varie e suono incessante di trombette. Bubu parte e, con un sinistro appena sfiorato dalla barriera di colombiani in verde, e la mette vicino al palo mentre Higuita guarda.
Il Milan è campione del Mondo, campione di tutto. Arrigo Sacchi, con il suo buffo impermeabile che sembra più largo di tre taglie, corre in mezzo al campo perché sa che in pochi secondi il Nacionàl non può reagire. Il Milan degli olandesi, del “monumento” Franco Baresi, dei fuoriclasse è campione del mondo grazie a quello con il soprannome dell’orsetto amico di Yoghi. Roba da matti.

Di quelli come lui, purtroppo, hanno buttato via lo stampo…

Biografia di un campione – Quello è il suo gol più significativo ma Alberigo Evani, in arte Bubu, non è un eroe per un giorno. Massese, classe 1963 e mancino vero è un prodotto delle giovanili del Milan. Nasce come terzino sinistro ma, quando sul pianeta Milan sbarca quel marziano di Paolo Maldini, Chicco trasloca con disinvoltura, prima sulla linea di metà campo dove da ad Arrigo Sacchi un apporto di corsa e piedi buoni che non ha pari e poi addirittura in mezzo al campo con Capello. Quando si pensa al “dodicesimo uomo” viene, giustamente, messo in rilievo il ruolo di Daniele Massaro ma su un livello molto simile andrebbe messo questo ragazzo polivalente che nel Milan ha giocato tredici anni, disputando 393 partite e segnando 19 gol. La bacheca dei trofei è ricchissima e conta, oltre ad una coppa Italia vinta con la Sampdoria, 2 campionati di Serie B, 3 di Serie A, 3 Supercoppe Italiane, 1 Mitropa Cup, 2 Coppe Campioni, 2 Supercoppa Uefa e 2 Coppe Intercontinentali. Fa parte di quella generazione di fenomeni che Silvio Berlusconi trova quando compra il Milan: Alberigo Evani, Mauro Tassotti, Paolo Maldini, Franco Baresi, Filippo Galli e Demetrio Albertini. Possiamo affermare, senza tema di essere smentiti, che una mano negli anni successivi questi ragazzi l’hanno data…

Dopo il Milan – Dopo la maglia rossonera indossa quella della Samp dove disputa quattro stagioni e, ormai a fine carriera, quelle di Reggiana e Carrarese per una stagione ciascuna. È ora di appendere le scarpe al chiodo e mettere in bacheca tutti i trionfi rossoneri ai quali può aggiungere una Coppa Italia con la Sampdoria ed una medaglia d’argento ai mondiali americani del ’94. Ma uno con quella intelligenza tattica e versatilità fa fatica a non stare su un campo da pallone ed insegue la sua ennesima trasformazione. Diventa allenatore, uno dei tanti ex rossoneri in quella veste, dapprima delle giovanili del Milan (campione d’Italia con gli Allievi Nazionali, giusto per mettere una tacca in più) e poi nelle file della FIGC. Fa tutta la trafila nelle Under (18, 19 e 20) e diventa uno degli assistenti di Giampiero Ventura sulla panchina della nazionale maggiore. Attualmente è allenatore “ad interim” della nazionale Under 21 in attesa che Di Biagio finisca il suo incarico pro tempore nella nazionale maggiore.

Una colonna della nostra storia – Massese, nasce il primo gennaio 1963. Dalla sua terra eredita la durezza del carattere dello splendido marmo che sta nel suo sottosuolo mentre dalla famiglia di estrazione operaia eredita quell’etica del lavoro che gli permette di diventare una delle colonne della nostra storia. Non è strapotente come Maldini (ma fermarlo è operazione assai complessa), non ha la classe di Donadoni (ma sulla sinistra va via che è un piacere e mette dei cross che paiono usciti da un manuale di balistica) o la visione di gioco di Ancelotti (ma riesce a giocare bene anche a centrocampo). In compenso sa fare tutto o quasi su un campo da pallone e per fermarlo servono i cavalli di frisia ed il filo spinato. È uno di quelli che, una volta fatta la squadra con dei campioni, vai dal tuo direttore sportivo e dici: “Ora mi serve uno come Evani”. O hai la fortuna di trovarlo in casa oppure lo paghi a peso d’oro perché chi ce l’ha quel tipo di giocatore se lo tiene. Bello stretto anche.

Alberico! non alberigo – No, non è uno sbaglio. Il suo nome è scritto con la C. Lo ha sempre sopportato, di malagrazia, perché tutti lo chiamavano così. Leggiamo dalla sua pagina facebook grazie agli amici di magliarossonera.it: “Il mio nome è Alberico con la c di Como, non la g di Genova. Detesto essere chiamato Bubu. Scusate ma dovevo dirvelo. È un nomignolo che usate con affetto, per questo ho sempre taciuto, ma in realtà m’infastidisce. Quando qualcuno mi chiama così m’incupisco, non lo vedo proprio di buon occhio. Mi piace Chicco, me lo sento mio, mi appartiene.” Ma lo ha detto solo a fine carriera in perfetta armonia con il suo carattere che lui stesso definisce così: Se una cosa mi dà fastidio si vede subito. Se sono felice no, non lo lascio trasparire. Insomma sono “montato” al contrario. Probabilmente dalla mia bocca sono usciti più “vaffanculo” che “ti voglio bene” … Dal mio cuore no!!!”

Come si fa a non volergli bene????

Pier 

La prima volta che sono entrato a San Siro il Milan vinceva il suo decimo scudetto. Ai miei occhi di bambino con la mano nella mano di suo nonno quello era il paradiso. Migliaia di persone in delirio, i colori accesi di una maglia meravigliosa e di un campo verde come gli smeraldi. I miei occhi sulla curva e quello striscione "Fossa dei leoni" che diceva al mondo come noi eravamo diversi dagli altri, leoni in un mondo di pecore. Da allora ogni volta, fosse allo stadio, con la radiolina incollata all'orecchio o davanti alla televisione la magia è stata sempre la stessa.