Le vite di Vitali

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Quello di doversi reinventare una volta conclusa la carriera sportiva non è certo un problema con cui i grandi giocatori dovranno mai confrontarsi. Sono pochi i casi di fenomeni finiti sul lastrico una volta conclusi gli opulenti anni passati a correre dietro un pallone, storie che tra l’altro, nella maggioranza dei casi, appartengono a epoche remote, quando gli stipendi erano meno generosi e le occasioni di profitto, dalle pubblicità alle sponsorizzazioni varie, non erano numerose né remunerative. È il caso ad esempio di Manoel Francisco dos Santos, Garrincha, una delle più grandi ali della storia del gioco. Impossibile da rincorrere sul prato verde per avversari di qualsiasi nazionalità, per l’alcolismo e la depressione era invece sin troppo lento. Con una vita personale e professionale devastata da vizi e fragilità, arrivò persino a militare tra le fila del Sacrofano, a Torvaianica, per la miseria di 80mila lire a partita.

Per sbarcare il lunario Dario Hübner ha invece acquistato un bar in una frazione dimenticata da Dio nella campagna cremonese, a Passarera, luogo scelto strategicamente in quanto a due passi da Crema, città della moglie. A un certo punto della propria carriera, con sul tavolo offerte anche dalla Premier League inglese, Tatanka decise di rimanere in Italia, trasferendosi a Piacenza proprio perché destinazione più vicina al paese della moglie, da cui lei, evidentemente, non voleva allontanarsi più di tanto. Scelta, questa dell’ex cannoniere della A (che al pari di Beppe Signori può vantare anche una fugace quanto indimenticata apparizione estiva con la maglia del Milan), che avrebbe poi ispirato i versi di Calcutta, “io certe volte dovrei fare come Dario Hübner, e non lasciarti a casa mai a consumare le unghie”.

Meno fortunato è stato invece Fabio Macellari, la cui intervista di pochi mesi fa ha fatto il giro del web. Come l’alcool aveva rovinato Garrincha, la droga ha eroso il talento – poco, non ce ne voglia – dell’ex terzino di Inter, Cagliari e Bologna, che proprio durante le due avventure rossoblù ha visto i demoni raggiungerlo come avevano fatto in precedenza con il suo illustre collega. Tre anni fa per vivere tagliava la legna nel piacentino e cantava in un gruppo rock i capolavori di Led Zeppelin e Deep Purple, oggi si è dato invece alla panetteria. Si potrebbe continuare ancora per qualche ora, abbandonando le storie più difficili e drammatiche per parlare di Stendardo, rude centrale difensivo con l’espressione arcigna à la Romanzo Criminale che oggi è invece un principe del foro. Di racconti ce ne sarebbero a iosa, basta la pazienza per scovarli. L’interesse di sicuro c’è. Non tanto per voyeurismo, ma per quella genuina curiosità che ci fa chiedere dove siano ora quelle persone che abbiamo amato e odiato per anni, ogni domenica e mercoledì, che fossero protagonisti indiscussi delle nostre tv o degli anonimi nomi che scorrevano sul tabellino del Televideo. Un po’ come quando ci chiediamo dove sia finito il repellente compagno di banco delle medie, inorridendo al pensiero che abbia addirittura potuto figliare.

Uno dei Carneadi rossoneri della mia infanzia è stato Vitali Kutuzov, attaccante bielorusso classe 1980. La sua storia extra calcistica è forse anche più interessante della carriera italiana (e non solo) che lo ha visto protagonista. Scoprimmo la sua esistenza nel 2001, quando il Milan dell’Imperatore Fatih Terim volò fino a Borisov per giocare una partita dell’allora Coppa Uefa. Nel cuore dell’ex repubblica sovietica il Milan vinse per 2 a 0 grazie alle reti di Shevchenko e Javi Moreno. Leggenda vuole che durante l’intervallo, forse galvanizzato dagli affari che videro il Milan pescare bene nell’ex URSS (oltre a Sheva in quegli anni arrivò a Milano anche il suo ex compagno alla Dinamo, il georgiano Kakhaber Kaladze), Adriano Galliani andò dal presidente della società bielorussa proprio per chiedergli il cartellino di Kutuzov. L’affare andò in porto in quattro e quattr’otto per quattro miliardi di lire, e la Gazzetta, già allora poco incline alle esagerazioni giornalistiche, gli diede il benvenuto in sordina: “Ecco Kutuzov. Lo manda Sheva”, incurante che non avessero mai giocato insieme e che Kiev distasse da Borisov la bellezza di 575 km. e sette ore e mezza di viaggio tra le desolate campagne dell’Europa orientale, magari a bordo di una Lada. L’avventura in rossonero dell’attaccante bielorusso fu rapida e incolore. Maglia Rossonera parla di sole quattro presenze ufficiali e nessuna rete. Nel 2002 venne girato in prestito allo Sporting Lisbona (dove farà la conoscenza di un giovanissimo Cristiano Ronaldo), e dopo quell’estate non passò più per Carnago.

Le esperienze calcistiche del centrocampista nato a Pinsk sono sovrapponibili a quelle di milioni di altri giocatori. Un’esperienza in prestito all’estero (lo Sporting, per l’appunto), poi il ritorno in Italia, con l’anno all’Avellino. Nel 2004 il suo definitivo addio al Milan, con il passaggio alla Sampdoria, dove si ritagliò un ruolo da coprotagonista nei primi anni dopo il ritorno in A (quelli della coppia gol Flachi e Bazzani, per intenderci, e anche su questi due ci sarebbe molto da scrivere). Nella stagione del trionfo di Atene Kutuzov giocò invece a Parma, collezionando sette misere presenze. L’anno successivo venne girato in prestito al Pisa, quello dopo ancora tornò in Emilia e ai sette match disputati di due stagioni prima ne aggiunse altri quattro, senza però segnare nemmeno una rete. La rinascita arrivò a Bari, dove Conte prima e Ventura poi riuscirono a valorizzarlo a pieno. Memorabile, per Vitali, il 23 agosto 2009, quando in quello che doveva essere il suo stadio, San Siro, segnò all’Inter che avrebbe poi vinto il Triplete il gol del definitivo 1-1 (per Caressa invece segnò un certo Boris Kutuzov). Soli sei giorni dopo avremmo vissuto la mattanza del Derby dello 0-4 – quello delle ciabatte di Seedorf e dell’espulsione di Gattuso -, soli tre mesi prima, il 23 maggio 2009, si disputò invece Salernitana-Bari 3-2, match che sarebbe costato a Kutuzov una squalifica di 3 anni e 6 mesi per calcioscommesse. Il verdetto della giustizia sportiva arrivò nel 2013, ma già dal 2012 il bielorusso era svincolato e senza una squadra, con il tabellino delle presenze in A fermo a 99 e quello delle reti a 9, a n’anticchia dalla tripla e dalla doppia cifra. A smacchiare la sua reputazione, certo col sapore della beffa, nel 2016 arrivò l’assoluzione del processo penale “per non aver commesso il fatto”, ma il danno, ormai, era già stato fatto.

Cosa fare ora? In che modo investire le proprie energie, i propri talenti, il proprio tempo, la propria passione dopo tante delusioni, sberle e tradimenti, con il velo del disincanto arrivato ormai a coprire tutto ciò che per Kutuzov valesse qualcosa? “Per andare avanti devi tornare indietro”. Per gli appassionati della saga fantasy “A song of ice and fire”, da cui è stata tratta la fortunata serie tv “Game of thrones”, questa frase non dovrebbe essere inedita. È quella che si ripete Daenerys Targaryen quando si trova a Meereen, in difficoltà, senza sapere esattamente cosa fare o come farlo, solo ciò che voleva ottenere: il trono di spade. Per andare avanti, Vitali decise di tornare indietro, alla sua passione dell’infanzia: l’hockey. Per un paio di stagioni militò prima tra le fila dei Diavoli Rossoneri (toh, che coincidenza) e poi dell’U.H.C. Barlafüs. Ruolo: portiere. Anche questa sua seconda vita sportiva è però oggi alle sue spalle. Davanti, la terza, scoperta qualche settimana fa, durante la conferenza stampa post partita di Lazio-Inter 2-1. “Buonasera mister”, saluta qualcuno seduto a pochi metri da un incazzatissimo Antonio Conte. È proprio Vitali Kutuzov, oggi giornalista per una testata del suo Paese. “Vitali, che ci fai qui? Come stai?”, ha risposto sorridendo Conte, dimenticandosi per qualche minuto della cocente sconfitta appena patita dai suoi ragazzi. “È stato un mio giocatore a Bari”, ha poi ricordato l’allenatore salentino ai sicuramente distratti reporter in sala stampa. “Te lo ricordi il nostro 4-2-4?”.

Un saluto, poi una foto a fine conferenza per ritrovarsi dopo tanti anni, ognuno dopo aver percorso la propria strada. Forse più banale quella di Conte, o perlomeno più dentro le righe di quella che è la classica avventura di un calciatore. Si gioca, poi si allena. O al limite ci si reinventa procuratori o dirigenti, o mal che vada opinionisti. Vitali Kutuzov da Pinsk ha invece voluto seguire se stesso, almeno finora. Di certo ha fatto ciò che sentiva fosse giusto fare, che fosse seguire una propria passione o mettersi ancora in gioco provando qualcosa di nuovo. Questo almeno fino alla prossima vita da vivere.

Fab

Ho questo ricordo, il primo sul Milan. Io che ad appena sette anni volevo vedere la finale di Atene, tra Milan e Barcellona… ma essendo piccolo dovevo andare a letto presto per la scuola. Allora mio padre, severo, mi permise di vedere la partita, ma solo il primo tempo. Finiti i primi 45 minuti, i miei genitori mi misero a letto, ma poco dopo sgattaiolai fuori dalle coperte e mi nascosi dietro la porta che dava sul salone. Al gol del Genio però non riuscii a trattenere la mia gioia… fortunatamente mio padre, interista, fu molto sportivo e mi lasciò concludere la visione di quella partita perfetta.